Le dodici Contrade si sfidano ogni anno nella tradizionale tenzone per la conquista del Cencio, opera d'arte di un illustre concittadino, disputando il Palio in onore del frate domenicano Beato Matteo Carreri del Convento di San Pietro Martire, protettore della città.
Frate Matteo Carreri da Mantova (1420-1470) era frate domenicano, dell’Ordine dei Predicatori dell’Osservanza, ossia della stretta ubbidienza alla regola dettata da San Domenico. Nel Cremonese, e precisamente a Soncino, egli riformò il convento di San Giacomo, portando la comunità dei frati alla fervente vita spirituale della primitiva regola, intrisa di preghiera e di contemplazione, di studio e di predicazione evangelica che irradiava in testimonianza di vita sulla popolazione del luogo. Troviamo poi frate Matteo in Toscana, in viaggio verso Pisa per un successivo imbarco verso Genova. Egli tornava da Roma dove aveva celebrato il Giubileo di metà Quattrocento, indetto da papa Niccolò V. Il viaggio da Pisa a Savona, su un veliero carico di pellegrini e di mercanzie, già di per sé movimentato, divenne assai agitato dall’attacco di una nave di “perfidi corsari”. Questi derubarono i beni della nave e dei passeggeri; il corsaro capo sequestrò anche due donne, madre e figlia, per portarsele via. Ma, come racconta frate Cherubino da Fabriano, testimone del fatto, “frate Matteo supplicò il barbaro di rilasciare le due donne, senza atterrirsi delle minacce del corsaro, il quale liberò in primo tempo la madre e, alle preghiere del frate che offriva se stesso in schiavitù, liberò pure la figlia, e a tutti diede la libertà”.
Nel 1456, frate Matteo è a Vigevano per una serie di predicazioni nella chiesa di San Pietro Martire, retta dai Padri domenicani della congregazione riformata osservante di Lombardia; essi tenevano un mirabile convento con annesso noviziato (ivi, nel più tardo 1520, il giovane frate Michele Ghislieri, che sarà papa santo Pio V, compirà il cammino di novizio per l’Ordine dei Predicatori). Frate Matteo tornerà a Vigevano per il quaresimale del 1470, ricercato apostolo del vangelo da parte di tutta la popolazione che ammirava la sua passione per la verità, la carità, la santità. La passione per la verità lo spinse a far chiarezza sul modo di fare divertimento da parte di alcuni saltimbanchi che, nella festa e connessa fiera-mercato di San Marco, intrattenevano i giovani con musiche e danze ritenute licenziose. Occorre ricordare che gli Statuti di Vigevano prevedevano due fiere annue di una settimana ciascuna, esenti da dazi: una fiera si teneva nella settimana precedente il 25 aprile festa di S. Marco; l’altra nella settimana del 4 ottobre, festa di S. Francesco. Ebbene, frate Matteo, avvertito dell’indecenza dei saltimbanchi, scese dal convento verso il piazzale della baldoria, portando un nodoso bastone in mano e cacciò tutti coloro che facevano disordine, con risentimento di taluni ufficiali del duca Galeazzo Maria Sforza. Questi, che stava nel castello di Vigevano, mandò a chiamare il frate per avere spiegazioni del suo operato.
Si presentò Matteo, accompagnato da due scudieri del duca che fecero entrare il frate dalla nuova porta del castello, accanto alla quale era tutto un fervore di opere per la messa a punto della prima scuderia approntata da Galeazzo Maria Sforza in quel 1470 (la seconda scuderia sarà del 1473, mentre la terza, la maggiore, sarà del 1490 ad opera di Ludovico il Moro). Matteo guardò intorno e vide la gran mole centrale del castello, il maschio, fatto costruire da Luchino Visconti con inizio nel 1345 e collegato alla Roccaforte di Belreguardo, ossia la Rocca vecchia, con l’ardita strada sopraelevata (lunga 163 metri, larga 7 e con un dislivello di 15 metri). Il duca Galeazzo Maria Sforza disse a frate Matteo di ammirare la “forza degli Sforza”. Al che, il frate rispose che la giustizia è la forza dei governanti, ossia il dare a ciascuno il dovuto. Galeazzo si fece prudente, ricordando che ove sorgeva il castello, prima sorgevano le case dei vigevanesi che Luchino Visconti acquistò con regolari contratti notarili, ma che non pagò. Di questo fatto scriverà il cancelliere notarile di Vigevano Simone del Pozzo, nell’estimo di metà Cinquecento: sembrava fantasia; però nel 2010 sono stati ritrovati gli originali di alcuni contratti tra Luchino e i vigevanesi, finiti nientemeno che alla Biblioteca nazionale di Francia, in Parigi.
Il duca Galeazzo tacque e frate Matteo persuase il duca del dovere dell’autorità di seguire la legge morale per il bene comune. La passione per la carità spingeva Matteo a farsi intermediario di grazie presso Dio che concedeva il miracolo alle preghiere del santo frate. Sono documentati, in Vigevano, due miracoli in vita: uno a guarigione di un bimbo ustionato dall’olio bollente, figliolo di Aliolo Gravalona, mercante e membro del Consiglio Generale della comunità di Vigevano; l’altro a favore di Antonino Ferrari detto Bergamino, liberato all’istante da progressive perdite di sangue. La passione per la santità lo compenetrava con i dolori di Cristo in croce, fino a ricevere la trasverberazione del cuore nella contemplazione del grande crocefisso che sta nella chiesa di San Pietro Martire in Vigevano. E, come il cuore di Cristo, anche il cuore di frate Matteo rimase aperto nel suggello della morte. Era il 5 ottobre 1470. Tutti gli abitanti di Vigevano accorsero a venerare il “beato” Matteo. Nel 1482, papa Sisto IV permise, a viva voce, il culto del Beato, secondo il rescritto dell’8 febbraio 1482 del padre Salvo Cassetta, Maestro Generale dei domenicani, con locale memoria liturgica al 5 ottobre. La spoglia incorrotta del Beato fu tolta dal sepolcreto comune dei frati e traslata sotto il primo altare all’entrata di sinistra della chiesa di San Pietro Martire in Vigevano. L’iconografia intanto lo mostrava con il bianco abito e mantello nero dei Domenicani, con in mano il libro della Sacra Scrittura, il giglio delle virtù e il cuore trafitto.
Confermato Protettore di Vigevano
All’altare accorreva il popolo nei frangenti di pubbliche calamità e in suppliche di particolari favori celesti. Il manoscritto di fine Quattrocento sulla vita del Beato Matteo registra progressive aggiunte con la descrizione di ricevute grazie che risultano documentate in numero di trentuno al 1518. Tale anno segnava il tempo maturo per la pubblica ratifica del “contratto” tra il santo e la comunità di Vigevano (promessa e mantenuta protezione da una parte e devozione dall’altra), tanto più che si stava esaurendo l’ultima testimone generazione che aveva direttamente conosciuto e apprezzato il santo uomo di Dio. Il Priore del convento dei Frati domenicani chiese quindi al Consiglio generale della comunità vigevanese la prova tangibile del riconoscimento del Beato Matteo quale efficace protettore della terra di Vigevano, attraverso il sostenimento delle spese per l’attuazione del Capo d’argento nel quale egli andava a trasferire il capo del Beato per porlo gloriosamente sopra l’altare (e non più sotto, ove riposava il sacro corpo che, l’anno successivo, ossia nel 1519, veniva composto in un’artistica urna marmorea). Il Consiglio Generale, come si legge nel “convocato” del 27 marzo 1518, “ordina di dare per amor di Dio al Signor Priore di San Pietro Martire dieci fiorini perché faccia fare il capo d’argento per il Beato Matteo”. Il riconoscimento del Protettore scaturisce non da un isolato pronunciamento, impossibile su piano formale da parte di un organismo laico, ma dal fattivo coinvolgimento del Consiglio generale della comunità di Vigevano in un processo devozionale popolare in atto. Sulla rinnovata arca del 1519 veniva sintetizzato il compiuto cammino: “Terra di Vigevano, chi ti fu predicatore, ti è Padre: il capo argenteo l’arca marmorea lo contiene”. Il suddetto Consiglio generale era presieduto dal Podestà di Vigevano, Polidoro Bellingeri (messo dai Marchesi Trivulzio sotto il cui dominio si trovava al tempo la terra di Vigevano) e contava la presenza di 42 Consiglieri, tra i quali emergevano i fratelli Raffaele e Luchino Vastamiglio che avevano conosciuto in vita il Carreri, Gerolamo e Giovanni Antonio Gravalona e pure Paolo Ferrari, le cui famiglie si riconducevano ai miracoli in vita di frate Matteo. Era il Consiglio giusto al momento giusto. L’approvazione venne accordata unanimemente. La devozione al Beato crebbe. L’elevazione di Vigevano in diocesi e città, il 16 marzo 1530, mentre confermò il Vescovo Ambrogio quale Patrono, non diminuì il fervore dei vigevanesi verso il Protettore Beato Matteo, largo di favori. L’ultimo miracolo registrato nel manoscritto è del 1558, con la descrizione della guarigione proprio di un Vastamiglio, frate Placido da Vigevano dell’Ordine dei Predicatori. Ma, anche se indirettamente, conosciamo il permanere del favore del riconoscente popolo vigevanese verso il suo Protettore. Infatti, al 1625, quando il vescovo di Vigevano, lo spagnolo carmelitano mons. Francesco Romero, in ligia applicazione del decreto di Urbano VIII circa la soppressione del culto dei santi privi dello strutturato processo canonico, proibì la pubblica venerazione del Beato, il popolo reclamò la protezione del Beato presso Roma. La Sacra Congregazione delle cause dei Santi, pochi mesi dopo, e precisamente il 2 dicembre 1625, dichiarò che il Beato Matteo Carreri non stava nell’elenco dei Santi soppressi e che quindi era legittima la venerazione al Beato. Nel 1646 fu approntata una cripta ai piedi dell’altar maggiore della chiesa di S. Pietro Martire, ove fu posta la ricomposta spoglia del Beato. La cripta fu ingrandita in suggestivo “scurolo”, inaugurato l’8 maggio 1740: la spoglia del Beato Matteo fu posta nell’urna di cristalli e di argenti smaglianti ancor oggi visibile. Maggior venerazione si ebbe nel 1742, quando papa Benedetto XIV confermò e ampliò il culto del Beato Matteo Carreri. Il tributo di lode al Beato Protettore di Vigevano continua ancor oggi.
Marco Bianchi Copyright 20 luglio 2011

